A Bontate “gli hanno fottuto tutte cose"
di Aaron Pettinari
C'è una mafia che ritorna nel doppio blitz compiuto ieri a Palermo. L'indagine condotta dal Ros, denominata “Brasca” come l'area rurale posta alle pendici del monte Gifone, ha svelato un piccolo pezzo di storia su uno dei più grandi segreti che quel territorio ha sempre nascosto: il tesoro di Stefano Bontate, se non tutto, almeno una parte.
Non era uno qualunque il figlio di Francesco Paolo Bontate, l'autorevole capo della cosca mafiosa di Santa Maria di Gesù, meglio noto come "don Paolino Bontà". Amava farsi chiamare chiamare “Principe di Villagrazia”, anche se non aveva titoli nobiliari, e frequentava senza probelmi i salotti borghesi della “Palermo che conta”.
A 35 anni dalla morte, avvenuta per mano dei corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano in un agguato nel 1981, si torna a parlare dunque del suo tesoro grazie a quelle intercettazioni compiute su due degli arrestati nell'operazione, Mario Marchese e Antonino Pipitone. Il primo è lo storico “traditore”, un tempo fedelissimo dei Bontate, che poi passò allo schieramento dei vincenti ed oggi è ritenuto il capo del mandamento di Villagrazia.
I due boss ricordavano come don Stefano aveva nascosto assieme ai suoi sodali, Girolamo Mondino e Antonino Sorci, “na cassa china ri picciuli”. Certo, è facile immaginare che quel tesoro fosse solo una parte di quei beni raccolti grazie al traffico internazionale di droga e al noto sacco edilizio di Palermo, ma è comunque un primo passo per cercare di capire come gli stessi sono stati spartiti.
Intercettando i boss il 28 ottobre 2013 gli investigatori hanno quindi scoperto che dopo la morte del “Principe di Villagrazia” i familiari di Bontate, i fratelli Stefano e Giovanni (anche lui ucciso), potevano contare su diversi immobili e non mancavano i contrasti.
Infatti Vincenzo Bontà, il genero di Giovanni Bontate ucciso alcuni giorni fa a Falsomiele, aveva una vecchia vertenza con il cugino acquisito, Francesco Paolo, il figlio di don Stefano attualmente detenuto. In ballo c'era la gestione di un appartamento in via Barbagallo.
“Mi ha chiamato e mi ha detto... quando era vivo la buonanima di Stefano... Bontate... hanno... una casa...” - raccontava Pipitone. Così da una parte c'era Angela Daniela Bontade, figlia di Giovanni e moglie di Vincenzo Bontà. E dall'altra parte c'era Francesco Paolo Bontate, attualmente detenuto per una brutta storia di droga e figlio di Stefano, sostenuto pure dal suocero Mario Adelfio: “All'epoca lo hanno arrestato... Mario Adelfio... e in questo periodo dice che si è fottuto un mare di cose... dice che c'erano un po’ di contrasti tra cugini ... tra mio genero... dice... con i suoi ...e i figli di Giovanni”.
Pitipone aveva pure interpellato Nino Bontà, padre di Vincenzo e oggi deceduto, da cui aveva appreso che dell'eredita di Stefano era rimasto davvero ben poco: “... gli hanno fottuto tutte cose”.
Ed è poi Marchese a svelare i particolari di quel tesoro nascosto sotto terra: “Stefano aveva vurricatu ‘na cassa china di piccioli” e aveva incaricato “Mumminu Mondino e Nino Sorci”. Poi, alla sua morte “la moglie di Stefano iu a truvarli” ma poi dissero di non saperne niente. “Agneddu e sucu e finiu ‘u vattiu”, sintetizzava Marchese. La cassa era stata recuperata e il contenuto diviso fra Mondino (“si pigghiò... mi sa si pigghiò...puru”), l'ergastolano Benedetto Capizzi (“... Iava dà puru pi Benedetto... agneddu e sucu e finiu u vattiu”) e il boss Ignazio Pullarà (“Ignazio la sa bene la discussione”).Anche il pentito Francesco Marino Mannoia aveva confermato l'episodio: “La signora si era rivolta a Nino Bontà per recuperare non solo gioielli e denaro, ma anche investimenti. Ma credo non ci riuscì”.
Nel blitz del Ros emergono anche altri affari interni alla famiglie di Villagrazia. Ad esempio si fa luce sugli immobili di Ignazio Pullarà, ex reggente e attualmente in carcere. Lui e la sua famiglia potevano contare su un insospettabile disoccupato, anche lui è stato arrestato: si chiama Antonino Macaluso, sul suo conto sono stati sequestrati 100 mila euro. Secondo gli inquirenti potrebbe essere denaro dei boss. Ogni mese, raccoglieva gli affitti di due immobili (uno, in via del Levriere, ospita un supermercato; l’altro, un bar): circa 3.200 euro, che faceva avere al figlio di Pullarà tramite il titolare di una marmeria, Francesco Di Marco.
Ci sono poi gli affari degli Adelfio sui Bingo, gestiti anche grazie all'aiuto di insospettabili come il medico Antonio Carletto, che risulta latitante, il quale gestiva il 20 per cento della Erregi srl (società che gestisce una sala giochi a Misilmeri) ed il commercialista Fabrizio Di Costanzo, che attraverso la Bingo.it curava l’altra sala dei boss, in via Messina Marine.
Di questo parlano in un colloquio in carcere, padre e figlio. Santi Pullarà spiegava al genitore che i proprietari della società pur cedendo la licenza, avevano messo in atto diversi espedienti per continuare l’attività senza alcuno ostacolo: “Si sono venduti la licenza e hanno fatto un po’ di impirugghi...”.
Intanto, la procura continua a scavare sui segreti imprenditoriali dei nuovi (vecchi boss). I sigilli sono scattati per quattro imprese edili che secondo l’accusa sarebbero espressione economica delle famiglie mafiose di Altofonte e Monreale. Ditte che vengono ritenute riconducibili agli indagati Onofrio Buzzetta, Nicola Rinicella, Giuseppe Giorlando e Giovan Battista Inchiappa. Le aziende hanno un valore complessivo di circa 600 mila euro.
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